Araba Fenice

28.9.05

Tanti frutti dello stesso tronco
Fu probabilmente Freud, ed essenzialmente per proteggerla dagli attacchi dell'istituzione accademico-sanitaria dell'epoca, il primo a passare da uno stile a una scuola e a "registrare il marchio" del suo metodo. Prima e accanto a lui sarebbero stati molti a poter fare lo stesso: da Charcot che ebbe come allievo il grande Janet (che a sua volta ebbe non pochi epigoni) a Bleuler, allo stesso Groddek. La necessità di "istituzionalizzarsi", di farsi "torah", era particolarmente sentita dal rabbinismo psicanalitico degli esordi, al punto che tutte le Società Psicanalitiche ufficiali la difendono a spada tratta con estensioni normative e gestioni rigide anche quando il mondo attorno gli sta crollando addosso.
Dopo di lui gli altri maestri non perdettero occasione di farsi delle parrocchie, ma non sempre furono altrettanto difensivi. Quello che non fecero i padri lo imposero comunque i figli che, dopo avere investito tempo, passione e denaro volevano distinguersi da quanti si richiamavano al "nome del padre" da "illegittimi".
I maestri non persero mai l'occasione di farsi la guerra e soprattutto di disconoscere il passato. Eppure dietro ogni moderna teoria c'è una storia personale e professionale che attraversa le principali teorie degli altri. Così Bert Hellinger, dopo avere attraversato la gestalt, la psicanalisi, la terapia familiare di Satir, l'AT, lo psicodramma... ha dato un nome al suo operare, al suo stile, chiamandolo "Costellazioni Familiari", così come Satir aveva consolidato la sua tecnica sulle basi dell'insegnamento di Perls, il quale ha sempre manifestato odio per la psicanalisi non prima di aver fatto l'esame con Freud, dopo essersi formato con Horney e Reich. Lo stesso vale per un altro negatore della psicanalisi come Don Jackson, padre della terapia della famiglia, che si era formato con Sullivan. E potremmo andare avanti così a lungo.
Per questo, guardatevi voi allievi di qualche scuola a non credere troppo alla sua unicità distintiva: tutti i rami della psicoterapia si incrociano e partono dallo stesso fusto. L'importante è avere una formazione rubusta anche sotto il profilo dell'empatia e della relazione, la gestione della frustrazione e dei propri meccanismi interni.
Poi finirete per sviluppare un vostro proprio stile e forse alla fine ne trarrete un libro e formerete i vostri allievi.
In quel momento, per favore, non date un titolo scolastico al vostro stile: chiamatelo solo stile e non fate prigionieri. Tutto quello che potrete fare ha già fin d'ora innumerevoli precursori anche e soprattuto fra quelli che avete imparato a disprezzare.

Grandi psicoterapeuti, grandi follie.
"Fai per come predico e non per come razzolo", vorrebbe essere il motto di gran parte degli psicoterapeuti passati alla storia.
A partire da Freud, il quale comprese così bene i meccanismi nevrotici proprio grazie alla sua nevrosi, praticamente quasi tutti i discepoli del viennese si tormentarono in follie più o meno accentuate, come Sandor Ferenczi o Otto Rank. Per non parlare poi di Jung le cui stesse memorie lasciano intuire come possa avere attraversato, nel periodo successivo alla separazione da Freud, una fase dissociativa che per un intero decennio lo fece ritirare dalle scene. Per Milton Erickson invece fu la poliomelite recidivata a procurargli anche profonde sofferenze psicologiche, mentre il padre della terapia dela famiglia, Don Jackson, non riuscì a sopportare la sua sofferenza psichica e scomparve precocemente. L'instabilità e la depressione erano il chiodo nella carne per quello che fu probabilmente il terapista più vitale e positivo, l'inventore della terapia della gestalt Friz Perls. E potremmo andare avanti a lungo. Insomma, contrariamente a quanto il senso comune dovrebbe portare a ritenere, uno psicoterapeuta psicologicamente instabile non sarebbe da evitare, almeno nella sua vita clinica - in quella privata forse sì, ma anzi sarebbe una garanzia.
Per affrontare la sofferenza bisogna avere sofferto. Forse questo è il senso del processo di analisi didattica che qualcuno teorizzò anche come la scoperta del proprio nucleo psicotico.
In altri termini, uscendo dallo "psicanalese", per aiutare chi soffre occorre una profonda sensibilità. L'altro non va solo "compreso": va soprattutto "sentito". Così come occorre avere sviluppato gli anticorpi della sofferenza psichica per poterla riconoscere e non "farsi contagiare" riuscendo comunque a mantenere il contatto. Per questo non è improbabile che, essendo pochi ad essere usciti più o meno "in piedi" da un'esperienza psicotica, riesca più facile trattare le nevrosi e molto meno le psicosi.
L'esperienza più importante di tutte è quella della "rinascita", ovvero di una morte vissuta e sofferta di una propria identità biografica e la ricomparsa in nuova forma dopo una traversata nelle tenebre, nel lutto profondo, nella notte della ragione: bisogna morire a se stessi per potere rinascere nella luce.
Non intendo certo suggerire che per diventare psicoterapeuti sia indispensabile impazzire, né insinuare che quanti non hanno attraversato esperienze psicopatologiche personali non siano in grado di curare il prossimo.
Voglio solo sottolineare che la sofferenza psichica può essere un momento di alta formazione, anche quando non sia stata definitivamente superata; che i grandi terapeuti hanno spesso queste esperienze in comune; e che la sensibilità, o meglio il "sentire" è una componente fondamentale per sviluppare empatia per chi soffre.