Grandi psicoterapeuti, grandi follie.
"Fai per come predico e non per come razzolo", vorrebbe essere il motto di gran parte degli psicoterapeuti passati alla storia.
A partire da Freud, il quale comprese così bene i meccanismi nevrotici proprio grazie alla sua nevrosi, praticamente quasi tutti i discepoli del viennese si tormentarono in follie più o meno accentuate, come Sandor Ferenczi o Otto Rank. Per non parlare poi di Jung le cui stesse memorie lasciano intuire come possa avere attraversato, nel periodo successivo alla separazione da Freud, una fase dissociativa che per un intero decennio lo fece ritirare dalle scene. Per Milton Erickson invece fu la poliomelite recidivata a procurargli anche profonde sofferenze psicologiche, mentre il padre della terapia dela famiglia, Don Jackson, non riuscì a sopportare la sua sofferenza psichica e scomparve precocemente. L'instabilità e la depressione erano il chiodo nella carne per quello che fu probabilmente il terapista più vitale e positivo, l'inventore della terapia della gestalt Friz Perls. E potremmo andare avanti a lungo. Insomma, contrariamente a quanto il senso comune dovrebbe portare a ritenere, uno psicoterapeuta psicologicamente instabile non sarebbe da evitare, almeno nella sua vita clinica - in quella privata forse sì, ma anzi sarebbe una garanzia.
Per affrontare la sofferenza bisogna avere sofferto. Forse questo è il senso del processo di analisi didattica che qualcuno teorizzò anche come la scoperta del proprio nucleo psicotico.
In altri termini, uscendo dallo "psicanalese", per aiutare chi soffre occorre una profonda sensibilità. L'altro non va solo "compreso": va soprattutto "sentito". Così come occorre avere sviluppato gli anticorpi della sofferenza psichica per poterla riconoscere e non "farsi contagiare" riuscendo comunque a mantenere il contatto. Per questo non è improbabile che, essendo pochi ad essere usciti più o meno "in piedi" da un'esperienza psicotica, riesca più facile trattare le nevrosi e molto meno le psicosi.
L'esperienza più importante di tutte è quella della "rinascita", ovvero di una morte vissuta e sofferta di una propria identità biografica e la ricomparsa in nuova forma dopo una traversata nelle tenebre, nel lutto profondo, nella notte della ragione: bisogna morire a se stessi per potere rinascere nella luce.
Non intendo certo suggerire che per diventare psicoterapeuti sia indispensabile impazzire, né insinuare che quanti non hanno attraversato esperienze psicopatologiche personali non siano in grado di curare il prossimo.
Voglio solo sottolineare che la sofferenza psichica può essere un momento di alta formazione, anche quando non sia stata definitivamente superata; che i grandi terapeuti hanno spesso queste esperienze in comune; e che la sensibilità, o meglio il "sentire" è una componente fondamentale per sviluppare empatia per chi soffre.
"Fai per come predico e non per come razzolo", vorrebbe essere il motto di gran parte degli psicoterapeuti passati alla storia.
A partire da Freud, il quale comprese così bene i meccanismi nevrotici proprio grazie alla sua nevrosi, praticamente quasi tutti i discepoli del viennese si tormentarono in follie più o meno accentuate, come Sandor Ferenczi o Otto Rank. Per non parlare poi di Jung le cui stesse memorie lasciano intuire come possa avere attraversato, nel periodo successivo alla separazione da Freud, una fase dissociativa che per un intero decennio lo fece ritirare dalle scene. Per Milton Erickson invece fu la poliomelite recidivata a procurargli anche profonde sofferenze psicologiche, mentre il padre della terapia dela famiglia, Don Jackson, non riuscì a sopportare la sua sofferenza psichica e scomparve precocemente. L'instabilità e la depressione erano il chiodo nella carne per quello che fu probabilmente il terapista più vitale e positivo, l'inventore della terapia della gestalt Friz Perls. E potremmo andare avanti a lungo. Insomma, contrariamente a quanto il senso comune dovrebbe portare a ritenere, uno psicoterapeuta psicologicamente instabile non sarebbe da evitare, almeno nella sua vita clinica - in quella privata forse sì, ma anzi sarebbe una garanzia.
Per affrontare la sofferenza bisogna avere sofferto. Forse questo è il senso del processo di analisi didattica che qualcuno teorizzò anche come la scoperta del proprio nucleo psicotico.
In altri termini, uscendo dallo "psicanalese", per aiutare chi soffre occorre una profonda sensibilità. L'altro non va solo "compreso": va soprattutto "sentito". Così come occorre avere sviluppato gli anticorpi della sofferenza psichica per poterla riconoscere e non "farsi contagiare" riuscendo comunque a mantenere il contatto. Per questo non è improbabile che, essendo pochi ad essere usciti più o meno "in piedi" da un'esperienza psicotica, riesca più facile trattare le nevrosi e molto meno le psicosi.
L'esperienza più importante di tutte è quella della "rinascita", ovvero di una morte vissuta e sofferta di una propria identità biografica e la ricomparsa in nuova forma dopo una traversata nelle tenebre, nel lutto profondo, nella notte della ragione: bisogna morire a se stessi per potere rinascere nella luce.
Non intendo certo suggerire che per diventare psicoterapeuti sia indispensabile impazzire, né insinuare che quanti non hanno attraversato esperienze psicopatologiche personali non siano in grado di curare il prossimo.
Voglio solo sottolineare che la sofferenza psichica può essere un momento di alta formazione, anche quando non sia stata definitivamente superata; che i grandi terapeuti hanno spesso queste esperienze in comune; e che la sensibilità, o meglio il "sentire" è una componente fondamentale per sviluppare empatia per chi soffre.